La luce e l'ombra - La nascita di mio figlio durante la pandemia Covid-19
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La luce e l'ombra - La nascita di mio figlio durante la pandemia Covid-19
Zusammenfassung
Era il mese di settembre 2019 quando ho scoperto di essere in attesa del mio secondo figlio. Lo abbiamo voluto e cercato tanto. La gravidanza con la nostra primogenita Annabelle è stata idilliaca: dal momento della decisione di avere un figlio, fino al test positivo neanche un mese dopo, ai mesi di gestazione fino al parto. Tutto è andato a gonfie vele, senza una crepa, senza una smagliatura, senza un singhiozzo o un sussulto lungo la strada. Tutto è andato come una giovane coppia, sana e felice, si aspetta che vadano le cose. Poco meno di 2 anni dopo, scopro di essere di nuovo incinta, siamo felicissimi di questa novità, convinti che anche questa volta andrà tutto bene. Così non è stato. Ancor prima di raggiungere il famigerato traguardo dei 3 mesi, ho perso il mio bambino. Per questo motivo, quando ho saputo di essere in attesa di Rafael, quel sentore di felicità spensierata non c'era più. C'era felicità, certo, infinita, perchè era un bambino amato e voluto, ma il timore che qualcosa andasse storto era ormai un cattivo compagno di viaggio.
In effetti, i primi 4 mesi sono stati davvero travagliati: ansia, sanguinamenti ricorrenti, corse all'ospedale fino addirittura ad arrivare all'ospedalizzazione per qualche giorno per essere monitorata. La situazione, dopo il quarto mese, è fortunatamente migliorata ed ho finalmente iniziato a rilassarmi e godermi appieno il mio stato di benedizione. Ero felice, innamorata, fiduciosa, speranzosa, sognatrice.
E' arrivato il mese di gennaio, incredibilmente ho ottenuto un nuovo posto di lavoro presso la Credit Suisse. Ero al 7 mese di gravidanza ed ho ottenuto un nuovo posto di lavoro! Da non credere! Inizio a lavorare, entusiasta per questa nuova sfida professionale. Tutti i giorni mi reco al lavoro in Paradeplatz a Zurigo col sorriso stampato. Mi sento davvero fortunata: ho una fantastica famiglia a casa, ho un nuovo lavoro bellissimo che mi da tanto, dei colleghi magnifici e, ultimo ma non da ultimo, un bebè forte e sano che cresce di giorno in giorno nella mia pancia. Cosa posso volere di più dalla vita?
Arriva marzo. Tutto il mondo si ferma. Tutti restiamo a guardare, esterefatti. Tutti non fanno che parlare di Coronavirus, di polmoniti, di mascherine, di Wuhan (città cinese da dove pare sia partito il virus e che, scioccamente, mi immaginavo come piccolo paesino sperduto da qualche parte in Cina, ma che invece è una metropoli molto più grande e prosperosa di quel che mi potessi immaginare). Viene dichiarata ufficialmente la pandemia globale da Covid-19. In ufficio viene implementata la cosiddetta split-production dove veniamo divisi in due gruppi e lavoriamo a intermittenza da casa e dall'ufficio. Tuttavia, un paio di settimane dopo ricevo un certificato dal mio ginecologo dove mi raccomanda caldamente di lavorare da casa, se possibile. Nessuno conosce questa bestia, nessuno sa cosa può portare o chi ne è maggiormente soggetto. La gente muore. Il Ticino è il cantone più colpito della Svizzera. Noi, lontani da casa, con tutti i nostri cari nell'occhio del ciclone, non possiamo che restare a guardare, spaventati ed allo stesso tempo increduli. Qui a Zurigo non si respira la stessa aria, non si vive la stessa atmosfera. Le persone continuano a morire. I nostri genitori, lungimiranti come sempre, cercano di fare incetta di maschere chirurgiche e guanti in latex, che trovano a prezzi esorbitanti. Quasi li prendiamo in giro, dicendo che sono esagerati, che è sufficiente fare attenzione ma di non esagerare e non farsi prendere dal panico. La gente muore, i numeri salgono alle stelle. Lockdown. Le strade sono deserte. I negozi sono chiusi. I ristoranti pure. Gli scaffali dei centri commerciali vedono sparire il riso, la pasta, il lievito. Sembra di vivere in tempi di guerra, anche se realmente non so cosa questo voglia dire. Le autorità sconsigliano caldamente gli spostamenti ed i contatti con altre persone. Distanza sociale inizia a diventare un motto usato da tutti. Il Ticino viene "tagliato fuori" dalla Svizzera. Esiliato. Ci sentiamo così soli, così lontani, così impotenti di fronte a questa maledetta bestia che ha preso tra le sue grinfie tutto il nostro pianeta. Cosa diavolo sta succedendo?
Arriva aprile. La data presunta del parto si avvicina sempre di più. Gli ospedali sono blindati: niente visite, gli interventi non urgenti sono stati cancellati/rimandati. Inizio a sentire la pressione che sale, la tristezza che, a momenti, prende il sopravvento. In quale mondo sto dando la vita a mio figlio? Che futuro avrà? Come evolverà questa pandemia? Cosa porterà via con se e quali cicatrici lascerà? Quando potrò rivedere e riabbracciare i miei cari? Quando potranno conoscere il nuovo membro della famiglia? Sono una donna fortunata, ho girato il mondo, ho conosciuto culture diverse, fatto esperienze di vita indimenticabili. Vorrei questo per mio figlio, vorrei che fosse libero, curioso, aperto, coraggioso, socievole. Tutto questo sarà ancora possibile un giorno?
Arriva il 28 aprile. Sto lavorando da casa. Il termine è fissato per il 16 maggio 2020, 3 anni e 3 giorni dopo la nascita di mia figlia Annabelle. Sono tranquilla. Ormai al lavoro sono sempre più autonoma, vista la situazione di emergenza, sono stata buttata nell'acqua fredda e profonda e mi è stato detto di nuotare. Ho imparato, sto imparando. Poco prima di mezzogiorno, inizio a sentire dei dolori (col senno di poi, molto molto deboli). Chiamo la clinica Hirslandend per chiedere un parere e, vista la velocità con la quale è nata la mia prima figlia, mi dicono di andare in ospedale. Vengo ricoverata nella sala parto. Fortunatamente le 3 sale sono ben divise tra loro e mio marito può raggiungermi e stare con me tutto il tempo. Arriva il 29 aprile. Alle 15:44 nasce Rafael, bello e sano come un pesce. Finalmente, è arrivata la luce. Finalmente, è arrivata la gioia e nessuna pandemia al mondo me la può portare via!
A mio marito viene consentito di stare con noi fino a 2h dopo il parto. Ci preparano per andare in reparto, salutiamo papà. Ci rivedremo fra 5 giorni. Rafael ed io abbiamo vissuto nella nostra camera ospedaliera per i suoi primi giorni di vita. Solo noi due, e qualche volta l'infermiera di turno che passa a visitarci. Non si è consentito passeggiare per il reparto. Se abbiamo bisogno di qualcosa, dobbiamo suonare il campanello e l'infermiera arriva. Non so bene nemmeno dove ci troviamo per la precisione. A che piano siamo? Com'è fatto il reparto? Ricordo che con Annabelle, tutti i giorni, più volte al giorno, mi ritrovavo con le altre mamme nella nursery per allattare i nostri bimbi, parlare tra di noi, confrontarci. Purtroppo oggi abbiamo un nemico: distanza sociale!
Il lockdown viene revocato ma la paura resta. La voglia di vedersi e riabbracciarsi è tanta, soprattutto dopo un evento così importante in famiglia. La prima volta che i miei genitori hanno visto Rafael è stato attraverso il vetro dell'entrata del palazzo. Andava bene così, bastava vederci dopo tanto tempo! Così vicini, eppure così lontani! La luce e l'ombra che si incontrano e scontrano.
In effetti, i primi 4 mesi sono stati davvero travagliati: ansia, sanguinamenti ricorrenti, corse all'ospedale fino addirittura ad arrivare all'ospedalizzazione per qualche giorno per essere monitorata. La situazione, dopo il quarto mese, è fortunatamente migliorata ed ho finalmente iniziato a rilassarmi e godermi appieno il mio stato di benedizione. Ero felice, innamorata, fiduciosa, speranzosa, sognatrice.
E' arrivato il mese di gennaio, incredibilmente ho ottenuto un nuovo posto di lavoro presso la Credit Suisse. Ero al 7 mese di gravidanza ed ho ottenuto un nuovo posto di lavoro! Da non credere! Inizio a lavorare, entusiasta per questa nuova sfida professionale. Tutti i giorni mi reco al lavoro in Paradeplatz a Zurigo col sorriso stampato. Mi sento davvero fortunata: ho una fantastica famiglia a casa, ho un nuovo lavoro bellissimo che mi da tanto, dei colleghi magnifici e, ultimo ma non da ultimo, un bebè forte e sano che cresce di giorno in giorno nella mia pancia. Cosa posso volere di più dalla vita?
Arriva marzo. Tutto il mondo si ferma. Tutti restiamo a guardare, esterefatti. Tutti non fanno che parlare di Coronavirus, di polmoniti, di mascherine, di Wuhan (città cinese da dove pare sia partito il virus e che, scioccamente, mi immaginavo come piccolo paesino sperduto da qualche parte in Cina, ma che invece è una metropoli molto più grande e prosperosa di quel che mi potessi immaginare). Viene dichiarata ufficialmente la pandemia globale da Covid-19. In ufficio viene implementata la cosiddetta split-production dove veniamo divisi in due gruppi e lavoriamo a intermittenza da casa e dall'ufficio. Tuttavia, un paio di settimane dopo ricevo un certificato dal mio ginecologo dove mi raccomanda caldamente di lavorare da casa, se possibile. Nessuno conosce questa bestia, nessuno sa cosa può portare o chi ne è maggiormente soggetto. La gente muore. Il Ticino è il cantone più colpito della Svizzera. Noi, lontani da casa, con tutti i nostri cari nell'occhio del ciclone, non possiamo che restare a guardare, spaventati ed allo stesso tempo increduli. Qui a Zurigo non si respira la stessa aria, non si vive la stessa atmosfera. Le persone continuano a morire. I nostri genitori, lungimiranti come sempre, cercano di fare incetta di maschere chirurgiche e guanti in latex, che trovano a prezzi esorbitanti. Quasi li prendiamo in giro, dicendo che sono esagerati, che è sufficiente fare attenzione ma di non esagerare e non farsi prendere dal panico. La gente muore, i numeri salgono alle stelle. Lockdown. Le strade sono deserte. I negozi sono chiusi. I ristoranti pure. Gli scaffali dei centri commerciali vedono sparire il riso, la pasta, il lievito. Sembra di vivere in tempi di guerra, anche se realmente non so cosa questo voglia dire. Le autorità sconsigliano caldamente gli spostamenti ed i contatti con altre persone. Distanza sociale inizia a diventare un motto usato da tutti. Il Ticino viene "tagliato fuori" dalla Svizzera. Esiliato. Ci sentiamo così soli, così lontani, così impotenti di fronte a questa maledetta bestia che ha preso tra le sue grinfie tutto il nostro pianeta. Cosa diavolo sta succedendo?
Arriva aprile. La data presunta del parto si avvicina sempre di più. Gli ospedali sono blindati: niente visite, gli interventi non urgenti sono stati cancellati/rimandati. Inizio a sentire la pressione che sale, la tristezza che, a momenti, prende il sopravvento. In quale mondo sto dando la vita a mio figlio? Che futuro avrà? Come evolverà questa pandemia? Cosa porterà via con se e quali cicatrici lascerà? Quando potrò rivedere e riabbracciare i miei cari? Quando potranno conoscere il nuovo membro della famiglia? Sono una donna fortunata, ho girato il mondo, ho conosciuto culture diverse, fatto esperienze di vita indimenticabili. Vorrei questo per mio figlio, vorrei che fosse libero, curioso, aperto, coraggioso, socievole. Tutto questo sarà ancora possibile un giorno?
Arriva il 28 aprile. Sto lavorando da casa. Il termine è fissato per il 16 maggio 2020, 3 anni e 3 giorni dopo la nascita di mia figlia Annabelle. Sono tranquilla. Ormai al lavoro sono sempre più autonoma, vista la situazione di emergenza, sono stata buttata nell'acqua fredda e profonda e mi è stato detto di nuotare. Ho imparato, sto imparando. Poco prima di mezzogiorno, inizio a sentire dei dolori (col senno di poi, molto molto deboli). Chiamo la clinica Hirslandend per chiedere un parere e, vista la velocità con la quale è nata la mia prima figlia, mi dicono di andare in ospedale. Vengo ricoverata nella sala parto. Fortunatamente le 3 sale sono ben divise tra loro e mio marito può raggiungermi e stare con me tutto il tempo. Arriva il 29 aprile. Alle 15:44 nasce Rafael, bello e sano come un pesce. Finalmente, è arrivata la luce. Finalmente, è arrivata la gioia e nessuna pandemia al mondo me la può portare via!
A mio marito viene consentito di stare con noi fino a 2h dopo il parto. Ci preparano per andare in reparto, salutiamo papà. Ci rivedremo fra 5 giorni. Rafael ed io abbiamo vissuto nella nostra camera ospedaliera per i suoi primi giorni di vita. Solo noi due, e qualche volta l'infermiera di turno che passa a visitarci. Non si è consentito passeggiare per il reparto. Se abbiamo bisogno di qualcosa, dobbiamo suonare il campanello e l'infermiera arriva. Non so bene nemmeno dove ci troviamo per la precisione. A che piano siamo? Com'è fatto il reparto? Ricordo che con Annabelle, tutti i giorni, più volte al giorno, mi ritrovavo con le altre mamme nella nursery per allattare i nostri bimbi, parlare tra di noi, confrontarci. Purtroppo oggi abbiamo un nemico: distanza sociale!
Il lockdown viene revocato ma la paura resta. La voglia di vedersi e riabbracciarsi è tanta, soprattutto dopo un evento così importante in famiglia. La prima volta che i miei genitori hanno visto Rafael è stato attraverso il vetro dell'entrata del palazzo. Andava bene così, bastava vederci dopo tanto tempo! Così vicini, eppure così lontani! La luce e l'ombra che si incontrano e scontrano.
Datum
April 29, 2020
Thema
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Sprache
it
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